sabato, Novembre 23, 2024
Economia

Piano Nex Generation EU:

Analisi del dott. Roberto Bevacqua

Una “mina” per ridisegnare l’economia della Penisola
Non ci si salva da soli. Potrebbe essere questa la frase che racchiude il senso
interventista di un Europa spesso allo sbando, non di rado adagiata su posizioni
teutoniche e cordate nordiche di stampo austerity; il più delle volte apparsa come
un’armata Brancaleone troppo attendista sugli scenari geopolitici e incapace di
dettare il passo forte del prestigio di una comunità che racchiude 446 milioni di
persone, 27 paesi con 24 lingue parlate.
Matrigna benigna l’Europa però, che non può essere stigmatizzata e vista solo
come un’impositrice di dettami normativi ingessanti e regole finanziarie
opprimenti, ma anche come un’istituzione garante della pace del continente e del
libero scambio di merci e persone. Un istituzione che, seppur con grandi
incongruenze, ha battezzato una moneta unica che ha azzerato la volatilità dei tassi
di cambio delle monete, certamente togliendo margini di manovra a quei paesi
come il nostro che in certe situazioni potevano svalutare e aumentare la
competitività delle proprie merci, ma ha anche stabilizzato i prezzi e reso più sicure
le banche, coordinato in parte i bilanci pubblici nazionali e investito risorse in
settori strategici per l’economia europea in generale e quindi, di riflesso, a
vantaggio di ogni singolo stato.
Non ci si deve schermare dietro le critiche, spesso giuste, all’Unione per le
incapacità del nostro Paese a cogliere le trasformazioni in atto soprattutto in questo
ultimo decennio.
Le infrastrutture materiali e immateriali, progettate dall’Europa, sono state e
saranno un banco di prova importante per ridisegnare la Nazione all’interno dei
corridoi digitali e infrastrutturali europei. Un’opportunità di collegamento delle reti
e delle piattaforme che, dall’Europa e nell’Europa, dovranno assicurare una
maggiore connettività delle persone, delle merci e delle imprese anche e soprattutto
in vista del nuovo Green Deal europeo che dovrà garantire al vecchio continente un
tessuto produttivo a impatto zero per il 2050.
Impegno arduo che riguarderà soprattutto un paese come il nostro, sempre in
ritardo a seguire una via europea attraverso il modus operante Mady in Italy.

Impegno che non può essere svincolato da una visione allargata degli interessi della
Unione verso ciò che sta accadendo in altri contesti geopolitici.

Una “mina” per ridisegnare l’economia della Penisola
Non ci si salva da soli. Potrebbe essere questa la frase che racchiude il senso
interventista di un Europa spesso allo sbando, non di rado adagiata su posizioni
teutoniche e cordate nordiche di stampo austerity; il più delle volte apparsa come
un’armata Brancaleone troppo attendista sugli scenari geopolitici e incapace di
dettare il passo forte del prestigio di una comunità che racchiude 446 milioni di
persone, 27 paesi con 24 lingue parlate.
Matrigna benigna l’Europa però, che non può essere stigmatizzata e vista solo
come un’impositrice di dettami normativi ingessanti e regole finanziarie
opprimenti, ma anche come un’istituzione garante della pace del continente e del
libero scambio di merci e persone. Un istituzione che, seppur con grandi
incongruenze, ha battezzato una moneta unica che ha azzerato la volatilità dei tassi
di cambio delle monete, certamente togliendo margini di manovra a quei paesi
come il nostro che in certe situazioni potevano svalutare e aumentare la
competitività delle proprie merci, ma ha anche stabilizzato i prezzi e reso più sicure
le banche, coordinato in parte i bilanci pubblici nazionali e investito risorse in
settori strategici per l’economia europea in generale e quindi, di riflesso, a
vantaggio di ogni singolo stato.
Non ci si deve schermare dietro le critiche, spesso giuste, all’Unione per le
incapacità del nostro Paese a cogliere le trasformazioni in atto soprattutto in questo
ultimo decennio.
Le infrastrutture materiali e immateriali, progettate dall’Europa, sono state e
saranno un banco di prova importante per ridisegnare la Nazione all’interno dei
corridoi digitali e infrastrutturali europei. Un’opportunità di collegamento delle reti
e delle piattaforme che, dall’Europa e nell’Europa, dovranno assicurare una
maggiore connettività delle persone, delle merci e delle imprese anche e soprattutto
in vista del nuovo Green Deal europeo che dovrà garantire al vecchio continente un
tessuto produttivo a impatto zero per il 2050.
Impegno arduo che riguarderà soprattutto un paese come il nostro, sempre in
ritardo a seguire una via europea attraverso il modus operante Mady in Italy.

Impegno che non può essere svincolato da una visione allargata degli interessi della
Unione verso ciò che sta accadendo in altri contesti geopolitici.

Gli investimenti cinesi in Africa, l’apertura di nuovi collegamenti economici artici,
la presenza nel mediterraneo di Russia e Turchia, gli interessi particolaristici di
Francia, Inghilterra e Germania, che spesso sono confliggenti con quelli sempre più
marginali del nostro paese, dovranno porre serie questioni di indirizzo
programmatico sia in ambito interno che internazionale, indirizzo volto a
ristrutturare in modo definitivo l’aspetto competitivo della penisola e a tutelare gli
interessi nazionali all’interno di una geopolitica fluttuante, obiettivo che al
momento sembra ancora lontano da una sensibilità politica troppo volta a
cannibalizzarsi su questioni marginali di rendite di posizione locali.
Non ci si salva da soli, dunque, è lo slogan che dovrà ispirare la sensibilità delle
forze politiche nazionali ed europee, perché il sistema è interconnesso e ogni
singola falla, ogni nodo nella rete dello sviluppo economico e infrastrutturale del
continente, si ripercuoterà necessariamente sui vari gangli della struttura
competitiva dei singoli stati.
Questa visione non è una nuova percezione dell’interconnettività funzionale degli
stati europei riuniti sotto la bandiera a stelle, ma recupera la visione ispiratrice della
stessa comunità europea, che salda una visione di unità e solidarietà degli Stati alla
visione politica programmatica dei territori, alla coesione sociale lo sviluppo e il
benessere delle popolazioni che la abitano, alla competitività delle sue aziende una
mobilità efficiente e sostenibile…insomma un economia forte che faccia gli
interessi del continente senza particolarismi, vigilando affinché ogni stato spenda le
risorse messe a disposizione all’interno della visione di sviluppo dell’Unione e in
funzione anche delle peculiarità insite ai modello di sviluppo che caratterizzano
ogni singolo Paese.

MEF
Focalizzando la lente sulle risorse che serviranno a ridisegnare l’Europa e nello
specifico il nostro Paese, accanto ai fondi di bilancio nazionale, il piano Nex
Generation EU appare come l’ancora di salvataggio cui agganciare la nave Italia.
La strategia del piano prevederà impatti sull’innovazione e la ricerca, sulla
transizione energetica delle imprese e la transizione digitale, sulla riconversione
green dell’economia e la connettività e mobilità delle reti infranazionali. Saranno
oltre 200 miliardi di euro quelli da investire, utili a ridisegnare l’economia e la
società della penisola attraverso investimenti e riforme in grado di supportare e
generare la crescita della nostra economia rendendola più efficiente, più ecologica,
digitale e resiliente per affrontare i cambiamenti tecnologici in atto, stabilizzando la
crescita della ricchezza, il miglioramento della qualità del lavoro e dei servizi ai
cittadini, la coesione sociale nei territori.
Un grande salto, dunque, verso un nuovo modo di vivere e operare, produrre,
viaggiare e comunicare che per quanto ci riguarda non può avvenire se non si
risolvono prioritariamente almeno tre questioni cardine. La prima è una riforma
sostanziale della formazione che recuperi e potenzi i saperi individuali e collettivi e
il potenziamento e la riqualificazione dell’istruzione che parifichi le performance
della scuola e dell’università italiana, sia all’interno dei propri parametri nazionali
che a quelli standard europei, senza dimenticare che l’istruzione va di pari passo
con l’educazione.
La seconda questio, del tutto italiana, sta nel “riequilibrio territoriale” che ha visto
divaricare le aree del Paese sempre più ad ogni crisi, i cui motivi sostanziali e non
ideologici sono riassumibili nel mancato intervento riequilibratore dello Stato dal
punto di vista degli interventi infrastrutturali del mezzogiorno, nell’insufficiente
dotazione di risorse e investimenti nei servizi essenziali e strategici delle aree
marginali del paese, con un visione miope e provinciale della competitività della
nazione che oggi sconta ritardi concorrenziali e una scarsa influenza geoeconomica
e commerciale, proprio in una delle aree più strategiche del continente: il
Mediterraneo.
Infine l’altro vulnus nazionale è la farraginosa sequela burocratica che va
necessariamente riformata, digitalizzata e snellita, per sbloccare tutte quelle opere
pubbliche di cui questa nazione ha un indispensabile bisogno.
Ranking 2020 del DESI (Indice di digitalizzazione dell’economia e della società)

Fonte: European Commission
Un’ultima riforma, che sta nelle cose, è quella più difficile da attuare: è il
cambiamento etico nell’approccio sulle questioni della res pubblica, nel modo di
pensare alle necessità programmatiche del Paese, nel modo di considerare le
opportunità di crescita e di impiego delle risorse pubbliche, la sentita necessità di
formare una classe dirigente seria e preparata che abbia nell’interesse della nazione
un principio ispiratore condiviso.

Solo cosi l’ambizioso piano europeo NGEU da attuarsi attraverso il PNRR e che
prevede un impatto positivo sul Pil al 2026, anno di conclusione del Recovery
Plan, di 3 punti percentuali, potrà risolvere positivamente i nodi gordiani della
crescita delle competenze, del riallineamento dello sviluppo del mezzogiorno con
le altre aree del paese, l’inclusione sociale e le prospettive occupazionali che,
necessariamente saranno attraversate da tensioni e cambiamenti nel breve periodo e
potranno stabilizzarsi, crescere e rinnovarsi nel medio termine attraverso la
transizione ecologica, la digitalizzazione e l’innovazione del tessuto economico
nazionale.

Gli investimenti cinesi in Africa, l’apertura di nuovi collegamenti economici artici,
la presenza nel mediterraneo di Russia e Turchia, gli interessi particolaristici di
Francia, Inghilterra e Germania, che spesso sono confliggenti con quelli sempre più
marginali del nostro paese, dovranno porre serie questioni di indirizzo
programmatico sia in ambito interno che internazionale, indirizzo volto a
ristrutturare in modo definitivo l’aspetto competitivo della penisola e a tutelare gli
interessi nazionali all’interno di una geopolitica fluttuante, obiettivo che al
momento sembra ancora lontano da una sensibilità politica troppo volta a
cannibalizzarsi su questioni marginali di rendite di posizione locali.
Non ci si salva da soli, dunque, è lo slogan che dovrà ispirare la sensibilità delle
forze politiche nazionali ed europee, perché il sistema è interconnesso e ogni
singola falla, ogni nodo nella rete dello sviluppo economico e infrastrutturale del
continente, si ripercuoterà necessariamente sui vari gangli della struttura
competitiva dei singoli stati.
Questa visione non è una nuova percezione dell’interconnettività funzionale degli
stati europei riuniti sotto la bandiera a stelle, ma recupera la visione ispiratrice della
stessa comunità europea, che salda una visione di unità e solidarietà degli Stati alla
visione politica programmatica dei territori, alla coesione sociale lo sviluppo e il
benessere delle popolazioni che la abitano, alla competitività delle sue aziende una
mobilità efficiente e sostenibile…insomma un economia forte che faccia gli
interessi del continente senza particolarismi, vigilando affinché ogni stato spenda le
risorse messe a disposizione all’interno della visione di sviluppo dell’Unione e in
funzione anche delle peculiarità insite ai modello di sviluppo che caratterizzano
ogni singolo Paese.

MEF
Focalizzando la lente sulle risorse che serviranno a ridisegnare l’Europa e nello
specifico il nostro Paese, accanto ai fondi di bilancio nazionale, il piano Nex
Generation EU appare come l’ancora di salvataggio cui agganciare la nave Italia.
La strategia del piano prevederà impatti sull’innovazione e la ricerca, sulla
transizione energetica delle imprese e la transizione digitale, sulla riconversione
green dell’economia e la connettività e mobilità delle reti infranazionali. Saranno
oltre 200 miliardi di euro quelli da investire, utili a ridisegnare l’economia e la
società della penisola attraverso investimenti e riforme in grado di supportare e
generare la crescita della nostra economia rendendola più efficiente, più ecologica,
digitale e resiliente per affrontare i cambiamenti tecnologici in atto, stabilizzando la
crescita della ricchezza, il miglioramento della qualità del lavoro e dei servizi ai
cittadini, la coesione sociale nei territori.
Un grande salto, dunque, verso un nuovo modo di vivere e operare, produrre,
viaggiare e comunicare che per quanto ci riguarda non può avvenire se non si
risolvono prioritariamente almeno tre questioni cardine. La prima è una riforma
sostanziale della formazione che recuperi e potenzi i saperi individuali e collettivi e
il potenziamento e la riqualificazione dell’istruzione che parifichi le performance
della scuola e dell’università italiana, sia all’interno dei propri parametri nazionali
che a quelli standard europei, senza dimenticare che l’istruzione va di pari passo
con l’educazione.
La seconda questio, del tutto italiana, sta nel “riequilibrio territoriale” che ha visto
divaricare le aree del Paese sempre più ad ogni crisi, i cui motivi sostanziali e non
ideologici sono riassumibili nel mancato intervento riequilibratore dello Stato dal
punto di vista degli interventi infrastrutturali del mezzogiorno, nell’insufficiente
dotazione di risorse e investimenti nei servizi essenziali e strategici delle aree
marginali del paese, con un visione miope e provinciale della competitività della
nazione che oggi sconta ritardi concorrenziali e una scarsa influenza geoeconomica
e commerciale, proprio in una delle aree più strategiche del continente: il
Mediterraneo.
Infine l’altro vulnus nazionale è la farraginosa sequela burocratica che va
necessariamente riformata, digitalizzata e snellita, per sbloccare tutte quelle opere
pubbliche di cui questa nazione ha un indispensabile bisogno.
Ranking 2020 del DESI (Indice di digitalizzazione dell’economia e della società)

Fonte: European Commission
Un’ultima riforma, che sta nelle cose, è quella più difficile da attuare: è il
cambiamento etico nell’approccio sulle questioni della res pubblica, nel modo di
pensare alle necessità programmatiche del Paese, nel modo di considerare le
opportunità di crescita e di impiego delle risorse pubbliche, la sentita necessità di
formare una classe dirigente seria e preparata che abbia nell’interesse della nazione
un principio ispiratore condiviso.

Solo cosi l’ambizioso piano europeo NGEU da attuarsi attraverso il PNRR e che
prevede un impatto positivo sul Pil al 2026, anno di conclusione del Recovery
Plan, di 3 punti percentuali, potrà risolvere positivamente i nodi gordiani della
crescita delle competenze, del riallineamento dello sviluppo del mezzogiorno con
le altre aree del paese, l’inclusione sociale e le prospettive occupazionali che,
necessariamente saranno attraversate da tensioni e cambiamenti nel breve periodo e
potranno stabilizzarsi, crescere e rinnovarsi nel medio termine attraverso la
transizione ecologica, la digitalizzazione e l’innovazione del tessuto economico
nazionale.

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