I Bianchi di Minsk: tra l’Inerzia e il Baratro
di Roberto Bevacqua Direttore Krysopea Institute
Con l’implosione dell’Unione Sovietica molte ex repubbliche dell’impero si affrettarono a recuperare chi una piena indipendenza politica, chi una autonomia relativa, ma certamente non una indipendenza energetica da quella che resterà la potenza “fossile” e nucleare euroasiatica, la Russia. Dipendenza che si avvertirà nei decenni a seguire la caduta dell’impero sovietico fino a oggi, dove molti stati sono legati alla Federazione Russa da legami storici, dipendenze energetiche, rapporti di potere più o meno dichiarati ma abbastanza manifesti. È nel 1991 che la Bielorussia riacquista la sua indipendenza e solo tre anni dopo inaugura una inossidabile reggenza governativa con Alexander Lukashenko, che è al potere dal 1994. Leader autoritario che ha negli anni accentrato su di sé ogni potere, polverizzando le opposizioni e i partiti in contrasto con la sua linea governativa, anche attraverso un discutibile esercizio di repressione nei confronti del dissenso che, comunque, anche in contumacia riesce ad esprimersi nei confronti di un leader che è considerato dall’UE alla stregua di un dittatore.
Certamente, nel quadro geoeconomico gli interessi degli stati si muovono spesso in contraddizione con gli interessi geopolitici in una sorta di ordine sanzionatorio che colpisce salvaguardando la gran parte degli interessi degli stati sanzionanti, creando spesso paradossi difficili da giustificare.
In Bielorussia lo stato controlla la quasi totalità dell’economia del paese operando secondo il modello del socialismo di mercato, ciò ha prodotto un elevato livello di spesa pubblica. Con un’economia poco diversificata, fragile e dipendente dalle risorse energetiche grezze russe, si è creato un indubbio controllo, un cordone ombelicale economico e politico che lega gli interessi di Minsk a quelli di Mosca
Verso la Russia, infatti, è indirizzato il 40% delle esportazioni e il 60% delle importazioni, ciò rende il sistema economico finanziario di Minsk rigido e vulnerabile, poco internazionalizzato, con un deficit delle partite correnti elevato e una relativa incapienza di riserve valutarie.
È proprio con la crisi Russo-Ucraina la debolezza dei fondamentali bielorussi si sta evidenziando, con la svalutazione del suo rublo, legato a un paniere di monete ma in gran parte vincolato alle oscillazioni e al valore del rublo moscovita, l’incapacità dell’apparato burocratico, rigidamente controllato, di rinnovarsi ed efficientarsi, ma anche di liberarsi di un asfissiante livello di corruzione.
Attraverso l’Unione Economica Euroasiatica la Bielorussia esporta verso la Russia e le altre repubbliche dell’UEEA materie prime destinate al settore industriale siderurgico, meccanico, alimentare, chimico e agricolo ma soprattutto prodotti ed energia da fonti fossili derivanti dalle lavorazioni delle raffinerie che ricevono petrolio a costo vantaggioso da Mosca, raffinando il prodotto grezzo e lucrando sul valore aggiunto della trasformazione.
In questi ultimi anni il Governo di Minsk ha realizzato tassi di crescita costantemente sopra il 2%, collocandosi tra le più ricche “repubbliche” della zona, con un reddito pro-capite appena sotto i 7000 dollari. Con un buon servizio sanitario, buoni livelli di istruzione della popolazione, una buona formazione del capitale umano, salari medi concorrenziali per la delocalizzazione industriale estera, un buon sistema infrastrutturale e un livello di tassazione dei profitti di impresa competitivo che determina un certo interesse degli IDE, il Paese sembra poter giocare un ruolo regionale importante.
Nonostante queste dinamiche tutto sommato interessanti, i fondamentali bielorussi restano abbastanza modesti, come elevate restano le perplessità sul suo futuro politico, unitamente alle criticità della stabilità della regione.
Il Pil bielorusso equivale appena a quello di Calabria e Basilicata, un decimo di quello della sola Lombardia. Lo sforzo del governo di Minsk per sostenere la sua economia e internazionalizzare le sue imprese, passa per una serie di importanti riforme a sostegno del sistema imprenditoriale e di attrattività di zone economiche speciali, dove concentrare parchi tecnologici soprattutto nel settore hi tech con aziende specializzate nello sviluppo dell’I.A., servizi informatici e produzione di software, il cui giro di affari genera esportazioni con volumi superiori al miliardo di dollari.
Ma è sui settori della petrolchimica, della siderurgia e del legno che la Bielorussia stabilizza la sua economia e insieme al settore tecnologico punta alla penetrazione del mercato euroasiatico attraverso l’UEEA, accordo economico commerciale con un potenziale bacino che sfiora i 200 milioni di consumatori e PIL stimato di quasi 1500 miliardi di dollari.
La crisi tra il governo bielorusso e l’UE in relazione ai brogli contestati per la rielezione del 2020, hanno segnato la fine del riavvicinamento tra Minsk e Bruxelles. Alle sanzioni dell’UE Lukashenko ha risposto con una strisciante guerra ibrida spingendo profughi siriani, afghani, iracheni verso l’Ucraina in guerra con la Russia, con l’obiettivo di creare pressione lungo il confine con la Polonia porta dell’Occidente.
Questo allineamento con le posizioni russe lasciano intendere anche una convergenza operativa con Mosca che, fino a ora, si è limitata ad operazioni di sostegno logistico, di intelligence e propaganda ma anche di destabilizzazione attraverso migrazioni di profughi e allerta psicologica su un probabile ingresso operativo di Minsk nelle operazioni militari, quantomeno di appoggio all’avanzata russa sul confine nord occidentale.
Le difficoltà delle forze di Mosca a prevalere sulla resistenza ucraina potrebbero costringere lo stesso Putin a richiedere un appoggio diretto a Minsk, ma ciò porterebbe tre effetti non facilmente valutabili. Il primo è geopolitico, ossia l’intervento diretto di un altro paese nella guerra con una escalation che allungherebbe il conflitto polarizzandolo ulteriormente e costringendo Nato e UE a un giro di vite sulle sanzioni che avrebbero ripercussioni devastanti e porterebbero ad una massiccia fornitura di armi ed equipaggiamenti superando il vantaggio che apporterebbe Minsk a Putin. Un secondo effetto è la probabile destabilizzazione del potere di Lukashenko, con un rafforzamento dell’opposizione interna supportata da elementi esterni, tenuto conto che la società civile bielorussa è alquanto contraria non solo a un intervento in guerra di Minsk quanto allo stesso intervento russo contro l’Ucraina. Il terzo effetto sarebbe l’inasprimento delle sanzioni da parte della UE che soffocherebbe definitivamente la fragilissima economia bielorussa, generando un default, già nei fatti altamente probabile, visto la dipendenza con l’economia russa, da cui il Paese difficilmente potrebbe riprendersi nei prossimi anni.
Il rischio di un isolamento internazionale, l’abbandono di investimenti stranieri, la svalutazione della moneta e la ripresa del tasso di inflazione prossimo alle due cifre impone al governo di Minsk una seria valutazione geopolitica e geoeconomica. A Putin non converrebbe trascinare il suo alleato in un teatro di guerra che porterebbe poco utilità, visto che la fornitura di armi da parte dell’Occidente verso l’Ucraina troverebbe altre strade, inoltre tutto ciò sottolineerebbe ancor più le difficoltà dell’esercito russo nel conflitto ucraino che fanno da contraltare alle difficoltà di un’economia russa arretrata che non è riuscita ad agganciare una modernizzazione generalizzata e oggi teme, oltre l’accerchiamento, la penetrazione dell’architettura sociale di un Occidente tentacolare e di un Oriente fagocitario.