giovedì, Novembre 21, 2024
Politica

Le Origini Del Conflitto Palestinese Sono In Europa

del dott. Armando Gherardi.

Indice

Il territorio

Sionismo

La Prima Guerra Mondiale, gli Inglesi e la questione palestinese

L’accordo Sikes-Picot

Il carteggio Husayn-McMahon

La dichiarazione di Balfour

Tutti i nodi vengono al pettine

Quando le cancellerie si mettono di mezzo

La Conferenza di Pace di Parigi e la Lega delle Nazioni

Il mandato per la Palestina

La pentola bollente

La commissione Peel

La commissione Woodhead

La conferenza di Londra ed il Libro Bianco di MacDonald

Dopo la Seconda Guerra Mondiale

L’affare Exodus e le Nazioni Unite

La guerra arabo-israeliana del 1948

Il declino dell’influenza europea sulla Palestina

Diciotto anni di guerra non dichiarata ed i Sei Giorni dell’Apocalisse

Il resto

C’è una soluzione?

È di gran lunga la più intricata questione internazionale, rimasta sostanzialmente irrisolta per più di un secolo! Il nocciolo della questione non potrebbe essere più classico: una disputa territoriale.

Il territorio

La regione in questione è delimitata ad ovest dal mar Mediterraneo, ad est dal fiume Giordano, a sud dalla penisola del Sinai e a nord – più o meno – dalle alture del Golan. Palestina è il nome con cui veniva chiamata questa regione fino al 1948, probabilmente da una traduzione del nome ebraico biblico Peleshet (פלשת Pəlésheth, talvolta traslitterato come Philistia o tradotto come Filistea), riferito alla terra dei Filistei (Pelishtim).

È un territorio caratterizzato da insediamenti di antichissima data, abitato da popolazioni umane stabili (come pure di Neanderthal) fin da epoche preistoriche. La città di Gerico è ritenuta il sito abitato in modo continuativo più antico al mondo, essendo abitato dal 9000 AC circa.

La sua storia è lunga e tumultuosa, dato che è il crocevia di religioni, culture, commerci e politica. Ha subito le dominazioni di numerosi popoli fra cui gli Egizi, gli Israeliti, gli Assiri, i Babilonesi, i Persiani, gli antichi Greci, i Romani, i Bizantini, gli Arabi, i Crociati europei, i Mamelucchi, gli Ottomani…. In altre parole, con qualche rara eccezione, tutti il mondo mediterraneo ed europeo, ad un certo momento storico, ha esercitato qualche forma di dominazione su questa regione.

Che succederebbe se i discendenti di queste popolazioni avanzassero oggi una pretesa territoriale su quest’area? Gli unici che l’hanno fatto – e con qualche successo – sono i Sionisti.

Sionismo

La causa scatenante della nascita del Sionismo fu la profonda disperazione degli ebrei, per secoli di antisemitismo in Europa, sin dal Medio Evo. La vita per loro non era per niente facile…. La “Zona di Insediamento” (Черта́ осе́длости), creata da Caterina La Grande nel 1791, concentrava in una specifica regione (approssimativamente corrispondente al territorio di gran parte delle attuali Lituania, Bielorussia, Polonia, Bessarabia, Ucraina e parti della Russia occidentale) tutti gli ebrei dell’Europa centrale ed orientale, con il divieto di risiedere altrove nell’impero russo. L’era dei pogrom iniziò nel 1821 (il primo a Odessa) e continuò nel XX secolo. In Europa occidentale, non se la passavano meglio: l’antisemitismo, nato dalla reconquista spagnola che cacciò gli Arabi dalla penisola iberica, da allora divenne latente, ancora xenofobo: di solito emergeva con grandi scandali, come l’affare Dreyfuss (1894-1906) in Francia…

Come spiega Walter Laqueur nella sua History of Zionism (Storia del Sionismo), il movimento sionista nacque come risposta degli ebrei ashkenaziti a questa situazione.

Formalmente, il movimento politico fu creato dal giornalista austro-ungarico Theodor Herzl nel 1897, al seguito della pubblicazione nel 1896 del suo libro Der Judenstaat (Lo Stato ebraico). Fine ultimo del movimento era incoraggiare gli ebrei ad emigrare in Palestina.

All’epoca, l’area era sotto dominio ottomano ma questo non impedì, fra il 1897 ed il 1914, alla prima ed alla seconda aaliyah, di portare circa sessantamila ebrei in Palestina, soprattutto dalla Russia, Polonia e Yemen. Quegli furono gli anni dei primi kibbutz e della fondazione di Tel Aviv.

Il 17 maggio 1901, Herzl riuscì finalmente ad incontrare Abdul Hamid II, detto il Grande Khan, XXXIV Sultano dell’Impero Ottomano. Herzl gli propose di pagare una parte sostanziosa del debito pubblico ottomano (centocinquanta milioni di sterline in oro di allora!) in cambio della concessione del permesso ai Sionisti di insediarsi in Palestina: il Sultano rifiutò.

La Prima Guerra Mondiale, gli Inglesi e la questione palestinese

Durante la Prima Guerra Mondiale, l’idea di sistemare l’area del Medio-Oriente cominciò a farsi strada. Ma non fu discussa apertamente: vennero identificate unilateralmente (o quasi) sfere di influenza e furono fatte promesse.

Quando l’Impero Ottomano fece ingresso nella Prima Guerra Mondiale a fianco degli imperi centrali, gli Inglesi sentirono la minaccia sul canale di Suez, punto strategico per collegare la parte orientale dell’Impero Britannico – specialmente l’India – con la madre patria. Erano quindi molto interessati a stabilire una presenza in loco, per proteggere il canale ed anche per offrire una rotta alternativa via terra. Perciò il governo britannico cercò con vari mezzi di assicurarsi il controllo della zona.

L’accordo Sikes-Picot

Fra novembre 1915 e maggio 1916, i governi britannico e francese – con il beneplacito dello Zar di Russia – negoziarono segretamente sfere d’influenza per esercitare, in caso di vittoria, il controllo sul Medio-Oriente – all’epoca in gran parte territorio turco. Il risultato di questi negoziati fu il segretissimo accordo Sikes-Picot, che prende il nome dal diplomatico francese François Georges-Picot e dalla sua controparte britannica Sir Mark Sikes. Sostanzialmente, l’accordo divideva le province arabe in mano turca in sfere d’influenza e controllo da parte della Francia e del Regno Unito. C’era anche un’area scura nella cartina allegata all’accordo – corrispondente più o meno alla Palestina – che veniva proposta per un’amministrazione internazionale, che doveva essere decisa consultando gli Alleati e Husayn Ibn Ali, lo Sceriffo della Mecca – cioè gli Arabi.

Il carteggio Husayn-McMahon

Mentre Sykes e Picot discutevano, Sir Arthur Henry McMahon, Alto Commissario del governo di Sua Maestà per l’Egitto fra il 1915 ed il 1917, scambiò una fitta corrispondenza con Husayn Ibn Ali, lo Sceriffo della Mecca: queste lettere vengono spesso riferite come il carteggio Husayn-McMahon. Lo scopo era di istigare un’azione militare araba contro l’Impero Ottomano, con il chiaro intento di aiutare gli Alleati a vincere la guerra.

Gli Inglesi promisero ad Husayn il controllo delle province arabe dell’Impero Ottomano, con l’eccezione di porzioni di Siria ad ovest dei distretti di Damasco, Homs, Hama ed Aleppo. Questi territori corrispondono all’odierno Libano: riservato ai Francesi, coerentemente con quanto stipulato nell’accordo Sikes-Picot. Non era specificato se il controllo fosse esteso alla Palestina. Però, geograficamente, la Palestina non è a ovest della Siria ma a sud-ovest… Più tardi, quando molti documenti inerenti vennero resi pubblici, fra varie assicurazioni di indipendenza fornite agli Arabi, venne fuori il verbale di una riunione tenutasi il 5 dicembre 1918 – cioè a guerra finita – dove Lord Curzon – all’epoca Lord del Sigillo privato nel governo di coalizione di Asquith, Lord Presidente del Consiglio Privato di Sua Maestà e Presidente della Camera dei Lord – discusse vari aspetti della questione palestinese, chiarendo che la Palestina non era stata esclusa dagli accordi con Husayn.

Come indicato nel Dictionary of Contemporary World History del professor Jan Pamowski di Oxford, dal punto di vista degli Arabi, le promesse del governo britannico venivano considerate un accordo fra loro ed il Regno Unito. Su questa premessa, l’azione militare araba iniziò nel giugno 1916, con un’armata di circa settanta mila uomini che affrontò le forze ottomane, dando un aiuto prezioso alla Egyptian Expeditionary Force del generale Edmund Allenby ad entrare in Palestina ed in Siria!

La dichiarazione di Balfour

Nonostante la guerra, gli Ebrei non erano rimasti con le mani in mano: il movimento sionista stava esercitando una costante pressione sugli Alleati ed i risultati arrivarono.

Il 2 Novembre 1917, il Ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour scrisse una lettera a Walter Rothschild, un eminente esponente della comunità ebraica in Gran Bretagna, indirizzata alla Federazione Sionista di Gran Bretagna ed Irlanda. Lo storico inglese Malcolm Edward, nel suo libro The Making of Modern Near East 1792-1923, pubblicato nel 1988, ne riporta un passaggio:

 His Majesty’s government views with favour the establishment in Palestine of a national home for the Jewish people, and will use their best endeavours to facilitate the achievement of this object, it being clearly understood that nothing shall be done which may prejudice the civil and religious rights of existing non-Jewish communities in Palestine, or the rights and political status enjoyed by Jews in any other country.

 Il governo di Sua Maestà vede con favore l’insediamento in Palestina di una nazione per la popolazione ebraica ed farà del suo meglio per facilitare il raggiungimento di questo obbiettivo, con il chiaro intendimento che nulla sia fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi della popolazioen non-ebrea residente in Palestina, o i diritti e lo status politico degli Ebrei in qualunque altro paese.

Tutti i nodi vengono al pettine

Durante questo tempo, la Russia zarista, al corrente ma non coinvolta nell’accordo Sikes-Picot, stava nel mezzo della Rivoluzione d’Ottobre. Quando i Bolscevichi presero il potere nel Novembre 1917, resero pubblici i dettagli dell’accordo. La reazione viene magistralmente riassunta da Peter Mansfield nel The British Empire magazine (n. 75 – 1973):

 (…) the British were embarrassed, the Arabs dismayed and the Turks delighted.

 I Britannici erano imbarazzati, gli Arabi sgomenti ed i Turchi lietissimi.

Il Manchester Guardian (oggi The Guardian) pubblicò i dettagli dell’accordo il 26 Novembre 1917, solo tre settimane dopo la dichiarazione di Balfour: i Sionisti si sentirono ignorati e traditi.

Quando le cancellerie si mettono di mezzo

Subito dopo la capitolazione dell’Impero Ottomano il 30 ottobre 1918, la Dichiarazione Anglo-Francese del 7 novembre 1918 aveva l’obbiettivo di emancipare completamente e definitivamente i popoli a lungo oppressi dai Turchi e l’insediamento di governi ed amministrazioni la cui autorità sarebbe derivata dall’iniziativa e la libera scelta delle popolazioni indigene. Come riportano Hugues, Taylor e Francis in Allenby and British Strategy in the Middle East, 1917-1919:

 the British (….) had issued a definite statement against annexation in order (1) to quiet the Arabs and (2) to prevent the French annexing any part of Syria.

 I Britannici avevano diramato una dichiarazione definitiva contro l’annessione per

(1) calmare gli Arabi (2) impedire ai Francesi di annettersi qualunque porzione di Syria.

Più tardi, il 23 Novembre 1918, gli Alleati diramarono un editto militare che divideva le ormai ex-province ottomane in Amministrazioni dei Territori Nemici Occupati (OETA: Occupied Enemy Territory Administrations). Fu solo nel 1919 a Deauville che il britannico David Lloyd George ed il francese Georges Clémenceau sistemarono la questione: il nuovo accordo affidava la Palestina ed altri territori minori alla Gran Bretagna in cambio dell’approvazione per l’influenza francese in Libano ed in Siria.

La Conferenza di Pace di Parigi e la Lega delle Nazioni

L’attenzione dei quattro grandi vincitori della Prima Guerra Mondiale (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti ed Italia) era concentrata sulle colonie tedesche, mentre la Turchia – assieme alla questione palestinese – era un “discorso a parte”.

Il presidente americano Woodrow Wilson – il primo presidente statunitense a visitare l’Europa mentre era ancora in carica – pose i famosi Quattordici Punti all’attenzione internazionale. Il quattordicesimo era:

 A general association of nations must be formed under specific covenants for the purpose of affording mutual guarantees of political independence and territorial integrity to great and small states alike.

 Un’associazione generale delle nazioni deve essere creata sotto condizioni

specifiche con il fine di garantire l’indipendenza politica

reciproca e l’integrità territoriale di stati grandi e piccoli alla stessa maniera.

Questo punto fu approvato e nacque la Società delle Nazioni, l’embrione delle future Nazioni Unite.

Come compromesso fra i dominii britannici (che ambivano a ricompense territoriali) e gli Americani (che volevano che la Società delle Nazioni amministrasse i territori fino alla loro indipendenza), la Conferenza di Pace di Parigi decise che la Società delle Nazioni avrebbe conferito mandati. E questo approccio fu seguito anche per i territori arabi ex-colonie turche, inclusa la Palestina. Dopo alcune vicissitudini, con l’accordo Faisal-Weizmann (che promuoveva la cooperazione per lo sviluppo della Palestina), Arabi e Sionisti accettarono l’idea, con la raccomandazione che il mandato fosse dato alla Gran Bretagna.

Il mandato per la Palestina

Sin dall’occupazione del generale Allenby dopo la rivolta araba, gli Inglesi non avevano mai lasciato la Palestina. Ma già prima che il mandato fosse conferito, fra il 4 ed i 7 aprile 1920, una violenta rivolta araba contro l’incessante immigrazione ebraica scoppiò a Gerusalemme – più tardi indicata come 1920 Nebi-Musa riots (rivolta del 1920 a Nebi-Musa) dagli Inglesi. La reazione militare britannica fu inefficiente, praticamente assente. Chiaramente, la fiducia reciproca fra le comunità stava venendo meno e gli Ebrei istituirono di un apparato di sicurezza autonomo, parallelo a quello britannico.

Qualche giorno dopo, il 24 aprile 1919 a San Remo, la Società delle Nazioni affidò il mandato per la Palestina al Regno Unito, con le clausole incluse nell’articolo 22 dello Statuto della Società delle Nazioni. I Sionisti avevano chiesto il riconoscimento del diritto storico sulla Palestina ma le loro speranze si infransero sull’articolo 7 del mandato:

The Administration of Palestine shall be responsible for enacting a nationality law. There shall be included in this law provisions framed so as to facilitate the acquisition of Palestinian citizenship by Jews who take up their permanent residence in Palestine.

 L’amministrazione della Palestina sarà responsabile dell’attuazione di una legge sulla nazionalità.

Tale legge dovrà includere facilitazioni per l’acquisizione della nazionalità

palestinese che prendano la residenza permanente in Palestina.

Dopo innumerevoli discussioni territoriali, il mandato britannico per la Palestina fu finalmente emesso nel 1922 con effetto il 29 settembre 1923.

Più o meno contemporaneamente, nel 1922, Winston Churchill, all’epoca Segretario di Stato per le Colonie, diramò il documento noto come Churchill White Paper (Libro Bianco di Churchill). In esso si forniva un’interpretazione ufficiale della dichiarazione di Balfour (sì: cinque anni dopo), stabilendo i principi operativi che avrebbero dovuto guidare lo stabilimento del “focolare” nazionale ebraico in Palestina, in un senso che, sebbene ribadisse il contenuto della dichiarazione di Balfour, ne limitava allo stesso tempo la portata pratica:

 

The tension which has prevailed from time to time in Palestine is mainly due to apprehensions, which are entertained both by sections of the Arab and by sections of the Jewish population. These apprehensions, so far as the Arabs are concerned, are partly based upon exaggerated interpretations of the meaning of the [Balfour] Declaration favouring the establishment of a Jewish National Home in Palestine, made on behalf of His Majesty’s Government on November 2nd 1917.

 

Le tensioni che sono scoppiate più volte in Palestina sono prevalentemente dovute

ad apprensioni sia di una parte degli Arabi che di una parte degli Ebrei.

Queste apprensioni, per quanto riguarda gli Arabi, derivano parzialmente da

un’interpretazione esagerata del significato della dichiarazione [di Balfour]

che favorisce l’insediamento di una nazione ebraica in Palestina,

dichiarazione del 2 novembre 1917 a nome del Governo di Sua Maestà.

Il mandato britannico in Palestina sarebbe cessato il 14 maggio 1948.

La pentola bollente

Secondo J.B. Barron nel suo Palestine: Report and General Abstracts of the Census of 1922 (Palestina: Rapporto e Riassunti Generali sul Censimento del 1922), più o meno all’inizio del mandato britannico, vi erano 757000 residenti, di cui 78% erano musulmani, 11% ebrei, 10% cristiani e 1% drusi.

Il mandato britannico fu un’era di crescita economica: fra il 1922 ed il 1947, la parte ebraica dell’economia palestinese crebbe del 13,2% anno dopo anno, con enormi disparità: nello stesso periodo, la parte araba dell’economia crebbe solo del 6,5%. Già nel 1936, la parte ebraica dell’economia aveva eclissato la parte araba. La disuguaglianza era ancora più drammatica dal punto di vista degli individui: i lavoratori ebraici avevano fino a 2,5 volte il reddito dei lavoratori arabi! Non dovrebbe sorprendere il fatto che ciò generava instabilità…

La scintilla alla base dell’esplosione fu la morte di un predicatore musulmano per mano della polizia britannica vicino a Jenin in novembre 1935. Nei quattro anni seguenti, gli Arabi si sollevarono contro il potere britannico e l’immigrazione di massa ebraica. Inizialmente, si trattava di eventi sporadici, ma erano sempre più organizzati ed armati. Gli obbiettivi erano strutture e beni inglesi e, con minore frequenza ed entità, ebraici. La Haganah, un’organizzazione paramilitare illegale ebraica, aiutava attivamente gli Inglesi a calmare le rivolte. Inoltre, un distaccamento terrorista di Haganah – chiamato Irgun o Etzel – adottò una politica di rappresaglia violenta sugli Arabi per attacchi agli Ebrei ed ai loro beni.

La commissione Peel

Lo sciopero generale di sei mesi da parte degli Arabi che succedette ai fatti di Jenin forzò i Britannici a considerare seriamente la situazione. L’11 novembre 1936, una commissione guidata da Lord William Peel arrivò in Palestina per indagare sulle ragioni delle rivolte. In termini procedurali, la commissione non chiese a nessuno in particolare di testimoniare: chiunque poteva contribuire purché seguisse i termini e le procedure indicate. In tanti, fra Arabi ed Ebrei, fornirono elementi da considerare alla commissione, fra cui (ma non solo) Chaim Weizmann ed il Mufti di Gerusalemme Hajj Amin al-Husseini. I membri della commissione fecero ritorno in patria nella settimana del 17 gennaio 1937.

Il 23 giugno 1937, la commissione completò la stesura di un rapporto di 411 pagine (comprese le mappe), che fu presentato alla Camera dei Comuni il 7 luglio successivo. Il rapporto si concludeva con la raccomandazione di dividere il territorio in due stati, sulla base dell’accettazione del fatto che la coesistenza fra i due popoli non stava funzionando – per lo meno nella forma fino ad allora applicata. Il rapporto includeva anche movimenti di popolazioni affinché i due stati fossero il più omogenei possibile.

Le conclusioni del rapporto furono rispedite al mittente dagli Arabi che si consideravano traditi dagli Inglesi: gli indigeni vivevano in Palestina da secoli e non era pensabile di sradicarli; inoltre erano state promesse loro terre ed autonomia e non vi era mai stato il caso di conferire territori agli Ebrei. Invece, da parte ebraica, i due leader Chaim Weizmann e David Ben-Gurion convinsero il congresso sionista ad accettare le conclusioni del rapporto come base per futuri negoziati, che potevano portare ad ottenere l’intera Palestina.

La commissione Woodhead

Il governo di Sua Maestà, da parte sua, accolse le conclusioni della commissione e si propose di ottenere dalla Società delle Nazioni il mandato per attuare il piano. A fine febbraio 1938, istituì quindi un’altra commissione, presieduta da Sir John Woodhead, un funzionario con carriera amministrativa in India, che lavorò da aprile ad agosto. Pubblicò le sue conclusioni il 9 novembre 1938: la commissione raccomandava di accantonare il piano della commissione Peel, fondamentalmente a causa dei movimenti richiesti alle popolazioni arabe; propose un’altra partizione che lasciava una parte di territorio sotto mandato britannico e che richiedeva esborsida parte delle finanze pubbliche britanniche. Il governo respinse il rapporto e la raccomandata spartizione per le difficoltà politiche, amministrative e finanziarie che comportava, e decise di organizzare una conferenza a Londra, con tutte le parti in gioco, per trovare un compromesso.

La conferenza di Londra ed il Libro Bianco di MacDonald

Nel frattempo, le conquiste territoriali della Germania nazista incutevano timore alle popolazioni ebraiche. Gli Stati Uniti avevano, nel frattempo, organizzato una conferenza ad Évian in Francia nel luglio 1938: sotto la pressione della crescente immigrazione ebraica in Palestina, non si riuscì a trovare un accordo.

Il governo britannico organizzò poi l’annunciata conferenza di Londra nel febbraio 1939 al fine di trovare un accordo fra Arabi ed Ebrei in Palestina. La delegazione araba acconsentì a partecipare a condizione di non incontrare direttamente la delegazione ebraica, perché l’avrebbe riconosciuta come controparte, dando dignità alle pretese ebraiche. Ci furono quindi incontri separati e la conferenza, non producendo nulla, si concluse il 17 marzo.

Il mondo stava cambiando e l’attenzione delle grandi potenze non era concentrata sulla Palestina. Quando la commissione Woodhead pubblicò il rapporto, la guerra civile spagnola stava pendendo dalla parte del fascista Franco, anche grazie al supporto di Mussolini ed Hitler – quest’ultimo sperimentando quella macchina da guerra che il trattato di Versailles gli proibiva di avere. In Asia, l’espansione giapponese aveva raggiunto la Cina. Di nuovo in Europa, l’Austria – annessa al III Reich – aveva cessato di esistere e la Cecoslovacchia era appena stata costretta a cedere i Sudeti, dopo la conferenza di Monaco di Baviera, per la quale il governo cecoslovacco non era stato nemmeno consultato…

Hitler parlava già di Polonia ed il governo di Sua Maestà aveva fretta di mettersi la questione palestinese alle spalle: visto che le parti erano inconciliabili, cercò di chiudere la faccenda con il Libro Bianco del 1939 o Libro Bianco di MacDonald (MacDonald White Paper). In esso, si stabilivano tre punti essenziali.

In primo luogo, per quanto riguardava le promesse fatte agli Ebrei, c’erano già circa 450000 ebrei in Palestina e questo era considerato sufficiente per considerare la dichiarazione di Balfour del 1917 rispettata. Quindi, nell’arco dei futuri dieci anni, la Palestina sarebbe diventata uno stato indipendente governato dagli Arabi e dagli Ebrei congiuntamente.

In secondo luogo, l’immigrazione in Palestina sarebbe stata ristretta a 75000 unità per i futuri cinque anni e ad una quota da definirsi con gli Arabi da lì in poi.

In terzo luogo, d’ora in poi, in certe aree, sarebbe stata vietata la vendita di terra agli Ebrei. Il primo ministro britannico Neville Chamberlain ne ottenne l’approvazione finale alla Casa dei Comuni il 23 maggio 1939.

Scontentò tutti: molti parlamentari di maggioranza (tra cui Winston Churchill, il segretario di stato alla guerra l’ebreo Leslie Hore-Belisha, il parlamentare liberal James Rothschild), gli Arabi (che non credevano nel governo congiunto della Palestina e rigettavano l’idea di uno stato ebraico), gli Ebrei (che videro la loro assegnazione restringersi ed iniziarono disordini in Palestina) e la Società delle Nazioni (che bollò l’iniziativa come contraria ai dettami del mandato). Ma gli Inglesi tirarono diritto: il 13 luglio, venne annunciata la sospensione of qualsiasi immigrazione ebraica in Palestina fino a marzo 1940, a causa dell’aumento dell’immigrazione clandestina.

La Seconga Guerra Mondiale, dichiarata nei primi giorni di settembre 1939, congelò la situazione.

Il Libro Bianco del 1939 costituisce una conferma dell’approccio incongruente delle autorità britanniche nel gestire la situazione.

Purtroppo, un miscuglio di colpevoli debolezze, ignorante sottostima e illusoria sfrontatezza fece sì che un problema piccolo ma serio potesse crescere fino a diventare un incubo internazionale. Eppure, già nel 1937, avrebbe potuto essere risolto. Lo ricordava Ben Gurion, vent’anni dopo la pubblicazione del rapporto della commissione Peel:

 

Had partition been carried out, the history of our people would have been different and six million Jews in Europe would not have been killed — most of them would be in Israel.

 

Se la partizione fosse stata attuata, la storia del nostro popolo sarebbe stata diversa

e sei milioni di Ebrei non sarebbero stati uccisi – molti di loro sarebbero in Israele.

Ai sei milioni, aggiungerei i morti nelle guerre e gli attacchi terroristi che sarebbero venuti dopo….

Dopo la Seconda Guerra Mondiale

La Seconda Guerra Mondiale scoppiò poche settimane dopo la pubblicazione del Libro Bianco di MacDonald. La Società delle Nazioni – che non aveva saputo impedire il conflitto – fu smantellata; al suo posto, venne creata l’Organizzazione delle Nazioni Unite che, in qualche modo, ereditò la questione palestinese.

La situazione geopolitica era però cambiata: gli Stati Uniti – più che il Regno Unito – avevano ora la potenza economica e militare. Per cui, mentre gli Inglesi limitavano ancora l’immigrazione in Palestina (come da Libro Bianco di MacDonald), la pressione per ospitare i rifugiati dell’Olocausto stava crescendo e la comunità ebraica in Palestina iniziò ad organizzarsi in una resistenza armata. Nel 1946, un’altra comissione, lo Anglo-American Committee of Inquiry (Comitato d’Inchiesta Anglo-Americano) esaminò la situazione e mise a punto ancora un altro piano: il piano Morrison-Grady, proposto dal britannico Herbert Morrison e dall’americano Henry F. Grady, col patrocinio del presidente americano Truman e del primo ministro britannico Clement Attlee. Il piano divideva la Palestina, dando il 17% del territorio agli immigrati ebrei ed il 40% ai Palestinesi arabi; il 43% sarebbe stato una zona neutrale sotto controllo britannico. La Palestina non sarebbe stata quindi né un territorio arabo, né un territorio ebraico. Ma, per l’attuazione, gli Inglesi avevano bisogno dell’assistenza americana per il controllo del territorio – e non fu loro mai offerta… Perdipiù, sia gli Arabi che gli Ebrei rifiutarono il piano – per ragioni opposte. E gli Inglesi si rivolsero all’ONU che reagì lentamente…

L’affare Exodus e le Nazioni Unite

Come succede spesso nella Storia, un singolo evento catalizza l’opportunità per un passo in avanti.

Nell’estate del 1947, l’affare Exodus esplose nelle mani degli Inglesi.

Exodus 1947 era una nave piena di migranti ebrei (4515 passeggeri fra cui 1600 uomini, 1282 donne e 1672 minori), molti di loro sopravvissuti all’Olocausto. La nave salpò da porto di Sète vicino Marsiglia, la mattina del 11 luglio, battente bandiera onduregna ed ufficialmente diretta ad Istanbul. Il capitano era Ike Aronowicz ed il suo vice Yossi Harel, entrambi affiliati alla Haganah. L’intenzione era ovviamente di portare i passeggeri in Palestina e questo andava contro la politica messa in atto dagli Inglesi. La Royal Navy, insospettita, decise di seguire l’Exodus. Quando la nave si avvicinò alle coste palestinesi, la Royal Navy abbordò il vascello (con qualche incidente): le autorità britanniche decisero che i passeggeri dovevano tornare in Francia. Questo era un segnale alla comunità ebraica ed ai paesi europei (che avrebbero potuto favoreggiare l’emigrazione): qualunque cosa mandassero in Palestina gli sarebbe ritornata indietro. Ironia della sorte, l’Exodus arrivò ad Haifa, in Palestina, ma solo per il trasbordo dei passeggeri su navi britanniche, sotto il controllo dell’ONU.

Le navi inglesi arrivarono a Port-de-Bouc, vicino Marsiglia, il 2 agosto ma il governo francese dichiarò che avrebbe consentito lo sbarco solo a chi lo avesse dichiarato volontariamente. Su consiglio degli agenti Haganah, tutti i passeggeri si rifiutarono di sbarcare e le autorità francesi non cooperarono con gli Inglesi per uno sbarco forzoso. La copertura dei mezzi d’informazione di allora fece il resto, mettendo la pressione sulle autorità britanniche per trovare una soluzione. Dopo tre settimane di situazione difficile a bordo e di offerte rifiutate per destinazioni alternative, vennero tutti sbarcati ad Amburgo, nella Germania occupata dagli Inglesi.

L’affare Exodus fu il catalizzatore che forzò l’ONU a trovare una soluzione più stabile. Il 29 Novembre 1947, questa arrivò nella forma della Risoluzione n. 181 (II) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L’ONU rispolverò, migliorandola e dettagliandola, la partizione in due stati. L’area attorno a Gerusalemme e Betlemme doveva essere protetta ed amministrata dalle Nazioni Unite. La risoluzione conteneva anche piani per l’unione economica fra i due stati e per la protezione dei diritti religiosi e politici delle minoranze. Il mandato britannico doveva cessare entro agosto 1948 ed i nuovi stati dovevano insediarsi entro ottobre 1948.

La guerra arabo-israeliana del 1948

I leader ebraici accettarono la partizione ma gli Arabi la rifiutarono. La Lega Araba minacciò il ricorso alle armi. Perciò, quando il 14 maggio 1948, lo stato di Israele dichiarò la sua indipendenza entro i confini stabiliti dalla risoluzione ONU, gli stati arabi della regione dichiararono guerra a Israele: scoppiò la guerra arabo-israeliana del 1948.

La guerra cessò il 20 luglio del 1949 e da allora gli Arabi la chiamano al-Nakba, in arabo النكبة‎, ossia la catastrofe: l’armistizio del 1949 fra Israele, Egitto, Libano, Giordania e Siria modificò la partizione, attribuendo ad Israele il 78% di quello che fu il territorio del mandato britannico (rispetto al 56 % previsto dall’ONU), alla Giordania venne affidata la Cisgiordania e Gerusalemme Est ed all’Egitto la striscia di Gaza. Le nuove frontiere dello stato israeliano divennero più tardi note come la Green Line (Linea Verde).

Israele perse circa l’1 % della sua popolazione in guerra: 6373 persone. Quasi 4.000 furono i militari e il resto civili. Il numero esatto delle perdite arabe non è noto ma è stimato fra i 5000 e i 15000 morti.

L’ONU stimò che 700000 palestinesi – metà della popolazione araba della Palestina dell’epoca – fuggirono, emigrarono o furono obbligati a sgomberare durante il conflitto.

Il declino dell’influenza europea sulla Palestina

Con la fine del mandato britannico finì anche il coinvolgimento europeo nell’area. Il Libano aveva già ottenuto l’indipendenza dalla Francia (nel 1941 dal governo di Vichy del maresciallo Pétain e nel 1943 dal governo in esilio di Charles de Gaulle). In Siria, gli Inglesi forzarono i Francesi ad evacuare le loro truppe nell’aprile del 1946, lasciando il paese nelle mani di un governo repubblicano. Il 25 maggio 1946, l’ONU approvò la cessazione di un altro mandato: quello britannico in Giordania; fu riconosciuta l’indipendenza come regno sovrano ed il parlamento giordano proclamò re Abdullah I. Il governo britannico aveva già concesso l’indipendenza all’Egitto nel 1922, anche se avrebbe mantenuto una presenza militare fino al 1954. Allo stesso modo, all’Iraq, gli Inglesi concessero l’indipendenza nel 1932, su pressione di re Faisal, anche se continuarono ad avere basi militari e diritti di passaggio per i soldati. L’era del colonialismo non era ancora finita ma l’Europa era già fuori dal contesto mediorientale.

Diciotto anni di guerra non dichiarata ed i Sei Giorni dell’Apocalisse

Lasciati a loro stessi e nelle inconcludenti mani dell’ONU, i protagonisti ebbero un periodo difficile: lontano dall’essere pacifico. Molteplici commissioni internazionali furono instaurate per risolvere le varie dispute connesse con l’armistizio del 1949. Durante il solo 1952, le discussioni sulle accuse davanti alla Commissione Mista israelo-giordana sull’armistizio risultarono in condanne alla Giordania per diciannove violazioni e ad Israele per dodici violazioni. L’anno successivo fu ancora peggio: secondo i dati dai rapporti ufficiali, nel periodo 1º gennaio – 15 ottobre 1953, alla Giordania vennero attribuite venti violazioni (su centosettantuno accuse) e ad Israele ventuno violazioni (su centosessantuno accuse).

La distanza fra i passi diplomatici, le vere intenzioni dei governi e ciò che accadeva sul campo era sempre più ovvia. Queste accuse e violazioni verificate continuarono per due decenni circa… Culminarono quando, secondo quanto scrivono Wm Roger Louis e Avi Shlaim in The 1967 Arab-Israeli War: Origins and Consequences (La guerra araboisraeliana del 1967: origini e conseguenze):

[Egyptian President] Nasser [took] three successive steps that made war virtually inevitable: he deployed his troops in Sinai near Israel’s border on May 14th; expelled the UNEF [United Nations Emergency Force] from the Gaza Strip and Sinai on May 19th; and closed the Straits of Tiran to Israeli shipping on May 22nd.

[Il presidente egiziano] Nasser [effettuò] tre azioni successive che resero la guerra praticamente inevitabile: dispiegò le sue truppe nel Sinai vicino alla frontiera israeliana il 14 maggio;

espulse l’UNEF [Forza di emergenze delle Nazioni Unite] dalla Striscia di Gaza e dal Sinai il 19 maggio; chiuse lo stretto di Tiran ai cargo israeliani il 22 maggio.

E quindi gli Israeliani fecero scoppiare la Guerra dei Sei Giorni – non dichiarata: iniziò il 5 giugno 1967, con attacchi a sorpresa contemporanei contro aeroporti egiziani, forze aeree siriane ed invadendo la Cisgiordania. Continuò fino al 10 giugno ed un cessate-il-fuoco fu firmato l’11 giugno. Israele finì coll’occupare la Striscia di Gaza, la penisola del Sinai, la Cisgiordania e le alture del Golan. Il territorio israeliano triplicò in dimensioni, inglobando un milione di Arabi sotto diretto controllo della stella di Davide.

Questo era un punto di non ritorno: l’ONU non fu capace di tenere sotto controllo nessuno dei belligeranti ed Israele aveva conquistato una posizione privilegiata sul campo che non poteva più essere ignorata.

Il resto

Quello che venne in seguito non aggiunge né toglie molto alla situazione: gli Anglo-Sassoni usano dire more of the same (solita solfa, ma senza la connotazione di noia). Il resto è un susseguirsi interminabile di attacchi militari, tregue, attacchi terroristici, accordi di pace, stragi, azioni di rappresaglia, reciproche accuse di inadempienze, e con la morte a comune denominatore…

C’è da riconoscere che, per un lungo periodo, la situazione non fu aiutata dalla Guerra Fredda: l’appoggio statunitense (spesso incondizionato) ad Israele spinse molti paesi arabi fra le braccia (interessate) dell’Unione Sovietica (che in passato aveva persino appoggiato la creazione dello israeliano!), complicando inutilmente la questione con la contrapposizione est-ovest.

Ripercorrendo i punti salienti di questa storia, non si riescono a separare chiaramente i “buoni” dai “cattivi”.

Risultano più che evidenti le responsabilità delle potenze coloniali – in particolare il Regno Unito: machiavellici accordi segreti, promesse di tutto a tutti, gestione superficiale durante il mandato… Ne risultarono politiche inconsistenti, volta-faccia, cambi repentini di direzione… Bisogna riconoscere che non mancarono gli sforzi formali: commissioni d’inchiesta tutte imparziali, armate di buona volontà e scrupolose nelle loro indagini. Ma arrivavano sempre troppo tardi, cioè quando la temperatura della situazione era così alta che qualunque risultato sarebbe insufficiente per qualcuno – se non per tutti…

Gli Arabi avevano creduto ciecamente e profondamente alle promesse britanniche e sostennero a lungo un atteggiamento manicheo al riguardo, che ignorava la situazione sul campo e non aiutava ad andare avanti. Atteggiamento manicheo che, quando fu spinto all’estremo, non lasciò spazio che alle armi. Andò loro male, molto male, e le continue sconfitte militari costituiscono uno storico esempio di ciò che rischia chi spera nella risoluzione militare dei controversie.

Agli Ebrei è andata di lusso. Fattore contribuente al successo fu inizialmente un misto di sensi di colpa e di fastidio che, all’inizio del XX secolo, l’Europa aveva nei loro confronti. Se ne giovò magistralmente il movimento sionista il cui unico scopo era quello di occupare la totalità della Palestina e renderla uno stato ebraico; incuranti dei millenni in cui altri avevano occupato, soggiornato e fatto loro quel territorio; brandendo le sacre scritture come se fossero un libro di storia o una prova da esibire di fronte ad una corte internazionale. Si spiegano – e non si giustificano – così la costante espansione territoriale, l’atteggiamento israeliano verso gli indigeni dei territori occupati, gli insediamenti fuori dai confini (che, in altri contesti, verrebbero condannati molto più seriamente e porterebbero con sé conseguenze più pesanti)… Si deve però riconoscere ai leader ebrei che crearono lo stato israeliano (meno a quelli che vennero dopo) una maggiore propensione al dialogo ed ai negoziati in generale, contrapposta al manicheismo arabo: i tentativi di “comprarsi” l’accesso dall’impero ottomano all’inizio del XX secolo, l’accettazione del piano della commissione Peel del 1937, l’accettazione della Risoluzione ONU 181(II) del 1947… È comunque innegabile che è stata la straordinaria superiorità militare e di intelligence a fare il resto.

Nell’ultimo periodo fino ai giorni nostri, la situazione appare come invertita: lo stato di Israele occupa la quasi totalità del territorio, specie se si considerano gli insediamenti, comportandosi come il “legittimo proprietario”; i Palestinesi, invece, sempre di meno nell’area, sono fatti passare quasi come usurpatori, nonostante vivessero lì da millenni…

C’è una soluzione?

Se ne avessi una, nessuno mi negherebbe il Premio Nobel per la Pace – l’ennesimo!

Direi che chi spicca per la sua assenza è l’Europa. A parte la perdita di influenza delle potenze coloniali, l’Europa (come comunità storico-etnico-sociale più che come Unione Europea), oltre che avere responsabilità sul come si è arrivati qui, è pur sempre una delle poche portatrici di quei valori che dovrebbero essere alla base della soluzione e ciò dovrebbe favorirla nel ruolo di mediazione.

Non lo possono più essere né Arabi, né Israeliani: hanno avuto abbastanza tempo per dimostrarlo. Non lo possono più essere gli Stati Uniti, perché troppo schierati con Israele. Non lo poteva essere l’Unione Sovietica e non lo può essere la Russia di oggi, per ciò che ha dimostrato e per ciò che sta dimostrando…

Rimane la Cina: geneticamente imperialista ma per ora molto meno militarista e, per ora, con una propensione all’approccio negoziale, non coinvolta nel passato, piuttosto credibile come mediatore. E se, alla Cina, venisse in mente di dedicarsi a questo progetto? Che mossa sarebbe sullo scacchiere internazionale? Che effetto avrebbe sugli equilibri?

Per rispondere, devo prima comprare una sfera di cristallo.

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