Il “Non Luogo” Della Dissonanza Cognitiva, Carceri e False Aspettative Costituzionali
di Adele Brogno
Molto spesso quelle che definiamo “prerogative costituzionali” risultano essere un segno di buon auspicio da parte del nostro legislatore di cui però non ne conosciamo ancora il presagio.
Ciò è quanto accade nel contesto “carceri”: “il non luogo” diremmo, una dimensione sospesa che vede i detenuti privarsi di una loro identità di passaggio dove viene meno il soggetto (termine coniato dall’antropologo Marc Augé).
Le carceri sono difatti da sempre considerate un mondo a sé: ovvero quello degli emarginati, le cui carenze fisio-psichiche e il mancato adattamento sociale portano loro a commettere reati di varia natura.
La pena parrebbe così essere il pretesto necessario ad identificare i bisogni del soggetto, soddisfarli e reinserirlo nella dimensione reale.
Un pensiero che sembra rispecchiare quanto enunciato al comma 3 dell’art. 27 della nostra Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”
Un trattamento, quello rieducativo, che prende in esame la personalità socio-psichica dell’autore del reato mediante l’uso di metodi e processi individualizzati per mezzo di un’osservazione scientifica della personalità; diretto ad apportare modifiche alla condotta dell’individuo nei rapporti sociali, che fanno spesso da scoglio al cammino riabilitativo.
Processo che il più delle volte non fa che dare esiti negativi incrementando i fenomeni criminogeni;
un esempio tangibile è quello a cui ci ritroviamo ad assistere ogni giorno nelle carceri italiane; un chiaro manifesto della violazione dei diritti inviolabili dell’uomo: diritto all’igiene, all’assistenza sanitaria, al rispetto della dignità sono solo alcune delle prerogative spesso violate. Prerogative di cui i detenuti sono tenuti a godere, ma molte volte risultano essere una mera illusione
Ad ogni modo, è forse opportuno ricordare, alcuni dei provvedimenti giurisdizionali emessi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con cui l’Italia è stata più volte condannata. Basti rammentare la nota sentenza Torreggiani; l’8 gennaio 2013 la Corte Europea penalizzava l’Italia per aver violato l’art. 3 CEDU. I motivi sono tanti: dalla ristrettezza degli spazi alla violazione delle norme igieniche (mancanza di acqua calda, carenza di aria e luce ecc.). Un problema tuttora attuale e i numeri lo dimostrano.
In Italia, il tasso di sovraffolamento è pari al 106 % se paragonato al resto dell’Europa; numeri che peraltro variano a seconda della struttura carceraria di riferimento.
È quanto emerge anche dai dati riportati dall’Associazione Antigone da anni impegnata nella salvaguardia dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario.
In un’epoca come quella che stiamo vivendo, l’esorbitante affollamento carcerario, già smisurato in epoca pre-pandemica, non può che accrescere i contagi da covid-19; trasmissione che tende a dilagare anche a causa delle scarse condizioni igienico-sanitarie.
Difatti, con decreto dell’8 marzo 2020 disposto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), è stato così deciso di provvedere alla risoluzione del problema, interrompendo i colloqui con i familiari. Misura che ha indubbiamente attenuato la circolazione del virus andando però a danneggiare le condizioni, peraltro già inumane, in cui vivono i detenuti.
Solo a seguito delle numerose rivolte che hanno visto togliere la vita a diverse persone, si è provveduto ad incentivare l’uso degli strumenti tecnologici.
Il covid ad ogni modo non ha fatto altro che enfatizzare scene ancora più angosciose di una realtà già dolente.
Infatti, le cause pregresse di cui alcuni detenuti sono affetti (disturbi della personalità, psicosi e depressione grave, disturbi mentali ecc.), se sommate a quelle appena riscontrate dall’analisi in esame, provocano un incremento sempre maggiore di atti di autolesionismo.
Sarebbe forse il caso, data l’emergenza costante, di potenziare l’organico di operatori del trattamento (funzionari giuridico-pedagogici, funzionari del servizio sociale, psicologi), con l’obiettivo di contribuire alla prevenzione di tali fenomeni mediante supporti psicologici. Così come occorre intervenire sulla carenza, sempre maggiore, degli agenti di Polizia Penitenziaria, costantemente impegnati a mantenere l’ordine e la disciplina, ma che spesso si ritrovano ad essere anche vittime delle gravi criticità in cui versano le carceri italiani
Tali fattori non possono che incidere negativamente sulle menti, comprese quelle sane, portando i detenuti a precipitare in un profondo vuoto che spinge ad uccidere finanche se stessi.
Ecco perché, risulta sempre più opportuno, accanto al supporto psicologico, incentivare maggiormente quella che è la cura di ogni male: l’istruzione, fondamentale in un contesto come quello carcerario, essendo essa necessaria a ridurre i divari sociali.
La mancata istruzione, infatti, non fa che alimentare la criminalità del nostro Paese dove c’è bisogno di profonde riforme per non andare incontro a quelle che diverranno le tendenze delinquenziali del futuro. I contesti carcerari devono così essere rivalutati, impedendo, a chi uscirà, di non essere vittima di recidiva.
Oltre a ciò occorre dare una ulteriore lettura, qualora ce ne fossimo scordati, a quelli che sono i diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione, essendo essi necessari a garantire il rispetto della dignità, dell’equità e dell’uguaglianza di ognuno. Uno fra tanti è l’art.32 Cost. laddove è stabilito: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. (…)
I detenuti al pari degli uomini liberi godono così degli stessi diritti in tema di salute essendo questa necessaria allo sviluppo economico e sociale del nostro paese.
Qualsiasi trattamento sanitario deve essere consentito dalla legge, garantendo anche ai carcerati il diritto a tutelare la propria salute.
In ambito penitenziario, occorre rendere più efficace tale norma costituzionale; promuovendo la salubrità degli ambienti e le condizioni di vita salutari; intervenendo in base all’età, alle caratteristiche socio-culturali, alla provenienza geografica; nei confronti dei tossicodipendenti, dei malati psichiatrici, dei detenuti con doppia diagnosi o ancora individuando i fattori di rischio, spesso causa di numerosi tentativi di suicidi.
Il passaggio dalla medicina penitenziaria al servizio sanitario nazionale (SSN), ha sì apportato dei miglioramenti nel caso di diagnosi e cura, ma tali misure sono ancora eccessivamente scarseggianti per rimettere in ordine una comunità così grande e complessa.
Occorre, a discapito di ciò, che tutte le morti per suicidio, per malattia, per overdose e altre cause non accertate continuino ad essere urlate alle istituzioni.
Occorre, dunque, in ultima analisi “reimparare a pensare lo spazio” perché le strutture carcerarie “non integrano nulla”, ma “autorizzano solo la coesistenza di individualità distinte simili e indifferenti le une alle altre”.